La Corte d'Appello di Milano - Sez. Lavoro - con sentenza n. 569/2019 pubblicata il 15.01.2020, ha ribadito e confermato il principio di irriducibilità della retribuzione di cui all'art. 2103 c.c..
In particolare, nel caso in esame, è stata sottoposta al vaglio della Corte d'Appello di Milano - Sez. Lavoro - una sentenza del Giudice del Lavoro di Lecco, il quale ha ritenuto legittimo un accordo sottoscritto dalle parti, con cui si pattuiva una riduzione della retribuzione con rinuncia del lavoratore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva, nonchè la rinuncia ad ogni impugnazione.
Il Giudice di primo grado motivava tale decisione in forza dell'assunto che tale accordo, in quanto avente ad oggetto diritti disponibili, non rientrasse nell'alveo dell'art. 2113 c.c., con la conseguenza che la sua intervenuta impugnativa nel termine di 6 mesi fosse irrilevante ai fini della sua validità e che, in ogni caso, la violazione della norma di cui all'art. 2103 c.c., secondo cui la retribuzione è irriducibile, si applica solo alle ipotesi di variazione in pejus delle mansioni del lavoratore, mentre nel caso in esame le mansioni sarebbero rimaste invariate.
In totale riforma di quanto statuito dal Giudice di primo grado, la Corte d'Appello di Milano ha, invece, dichiarato la nullità dell'accordo di riduzione della retribuzione di cui in discussione, ribadendo e confermando da un lato il principio di irriducibilità della retribuzione e dall'altro le stringenti ipotesi e modalità di deroga dello stesso legislativamente previste.
In particolare, secondo la Corte:
In particolare, nel caso in esame, è stata sottoposta al vaglio della Corte d'Appello di Milano - Sez. Lavoro - una sentenza del Giudice del Lavoro di Lecco, il quale ha ritenuto legittimo un accordo sottoscritto dalle parti, con cui si pattuiva una riduzione della retribuzione con rinuncia del lavoratore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva, nonchè la rinuncia ad ogni impugnazione.
Il Giudice di primo grado motivava tale decisione in forza dell'assunto che tale accordo, in quanto avente ad oggetto diritti disponibili, non rientrasse nell'alveo dell'art. 2113 c.c., con la conseguenza che la sua intervenuta impugnativa nel termine di 6 mesi fosse irrilevante ai fini della sua validità e che, in ogni caso, la violazione della norma di cui all'art. 2103 c.c., secondo cui la retribuzione è irriducibile, si applica solo alle ipotesi di variazione in pejus delle mansioni del lavoratore, mentre nel caso in esame le mansioni sarebbero rimaste invariate.
In totale riforma di quanto statuito dal Giudice di primo grado, la Corte d'Appello di Milano ha, invece, dichiarato la nullità dell'accordo di riduzione della retribuzione di cui in discussione, ribadendo e confermando da un lato il principio di irriducibilità della retribuzione e dall'altro le stringenti ipotesi e modalità di deroga dello stesso legislativamente previste.
In particolare, secondo la Corte:
"Va in primo luogo dichiarata la nullità dell’accordo del 22/2/2016, essendo stato formalizzato in
violazione di norme imperative, come già, più volte, ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr.
Cass. nn. 16016/2003, 4055/2008, 11362/2008).
L’art. 2103 c.c. detta regole stringenti per le ipotesi di riduzione della retribuzione, prevedendo che la
stessa non muti, neppure in caso di passaggio a mansioni inferiori. Diversamente da quanto statuito dal
primo giudice, la circostanza, pacifica, che il lavoratore abbia continuato, dopo la conclusione
dell’accordo del febbraio 2016, a svolgere le medesime mansioni, non può indurre a ritenere che il caso
di specie esuli dalla disciplina dettata da detto articolo del codice. Infatti, se neppure l’esecuzione di
mansioni deteriori rispetto a quelle pattuite può portare ad una diminuzione della retribuzione, a
maggior ragione, lo previsione dello svolgimento delle medesime mansioni non può indurre a ritenere
che sia consentita una tale diminuzione.
Né assume rilievo che la riduzione della retribuzione sia stata concordata tra le parti: il sesto comma
dell’art. 2103 c.c. stabilisce, infatti, che un tale accordo debba essere concluso in “sede protetta”: si
tratta di norma dettata a tutela del lavoratore, a cui questi non può rinunciare, pena la invalidità
dell’accordo.
In altre parole, la formazione dell'accordo deve avvenire nell'ambito di contesti in cui la volontà
negoziale del lavoratore si presuma tutelata da illegittime pressioni da parte del datore di lavoro. In
particolare, l'accordo deve essere posto in essere di fronte alle commissioni di certificazione, ovvero
nelle sedi enunciate dall'art. 2113, 4° co., cioè durante il tentativo di conciliazione provocato dal
giudice ai sensi dell'art. 185 c.p.c., di quello svolto di fronte alla commissione di conciliazione ai sensi
dell'art. 410 c.p.c.; di quello condotto nell'ambito di un arbitrato o conciliazione regolati dai contratti
collettivi ai sensi dell'art. 412 ter c.p.c.; di quello regolato dall'art. 412 quater c.p.c.
Nel caso di specie, invece, l’accordo del 22/2/2016 è stato stipulato al di fuori del sistema di garanzie
previsto dal legislatore, con la conseguenza che resta irrilevante accertare se sussistesse effettivamente
la crisi della Società, condizione prevista dal codice per addivenire, lecitamente, ad una modifica
peggiorativa della retribuzione.
L’inosservanza delle regole dettate a tutela del lavoratore, come tali inderogabili dalla volontà delle
parti, comportano l’invalidità dell’accordo, invalidità tempestivamente denunciata dal dirigente, il
quale ha impugnato il patto sottoscritto nel termine di sei mesi dalla sua conclusione".